Che differenza passa tra quelle che, comunemente, vengono indicate come piccole cose e
quelle che, invece, sono riconosciute come grandi cose? E, di fatto, esiste una reale,
sostanziale differenza?
Credo che, in prima battuta, sia necessario chiarirsi su cosa si intenda quando si utilizzano
entrambi questi concetti. Nelle occasioni in cui si parla di grandi cose, spesso, queste
sono intese secondo due diverse accezioni. La prima è quella che fa riferimento alle
grandi imprese, agli atti eroici, ai gesti eclatanti. La seconda, invece, qualifica le grandi
cose come quelle più meritevoli di riconoscimento e valevoli dell’attribuzione di importanza
e dignità. Come se fosse la “grandezza” – o presunta tale – di una certa azione, rispetto
ad un’altra, a determinarne l’intrinseco valore.
In virtù di tale categorizzazione, dunque, che posto occupano le piccole cose? E qual è il
parametro che le misura come tali? Sono i luoghi comuni – ahimè troppo di frequente – a
farla da padrone. Gli stessi di cui sono farciti anche il nostro modo di parlare e le nostre
conversazioni quotidiane. In modo maldestro e – a tratti superficiale – si sfornano
massime e suggerimenti di vita che rimandano all’idea dell’accontentarsi; di godere del
“poco”. Una sorta di principio della scarsità a cui guardare con benevolenza. La sdoganata
abitudine, amplificata dall’era post pandemica e dal boom dei social, di dispensare consigli
non richiesti, camuffati da saggezza pret a porter, ha anche divulgato – in modo
allegramente inconsapevole – una riduzione in termini qualitativi del concetto di piccole
cose.
Il linguaggio, come insieme di codici che funge da veicolo per la comunicazione tra gli
individui, se non adeguatamente adoperato, porta con sé il pericolo di svuotare di
significato, o implicitamente di squalificare, qualsiasi termine o espressione e, di
conseguenza, le idee di cui essi sono rappresentativi.
È da tale riflessione che scaturisce questo post. Nondimeno dal piacere di condividere
con voi cosa sono state per me, lungo il mio percorso di crescita, e cosa sono tuttora,
queste spesso male interpretate piccole cose. Consapevole che, molto probabilmente,
tanti tra coloro che leggeranno queste righe, avranno modo di rispecchiarsi, rintracciando
– attraverso il mio racconto – esperienze comuni di vita.
Ognuno persegue differenti scopi a seconda delle proprie inclinazioni, attitudini,
ambizione, vocazione, talento. Credo però che ci sia qualcosa che tutti accomuna e a cui
tutti anelano: la felicità. E’ così che è iniziato il mio viaggio: con l’obiettivo di essere felice!
A riguardo avevo le idee ben chiare: non si trattava di inseguire quel genere di
contentezza che si rivela puntualmente fugace; quegli attimi di adrenalina in cui sembrano
scoppiare i fuochi d’artificio, che si caratterizzano tanto per la loro intensità, quanto al
tempo stesso, per la loro brevità. Io volevo quella che da sempre mi piace chiamare felicità
a prescindere.. A prescindere perché non dipendente da niente e da nessuno.. uno stato
dell’Essere in costante pienezza. Utopia?? All’apparenza sì.. ma sin da subito l’ho creduto
possibile.. e mi sono adoperata per renderlo reale.
Ho cominciato con un esercizio semplice: al termine di ogni giornata segnavo sul
calendario sì oppure no, a seconda di come avevo saputo guidare i miei stati d’animo e la
mia frequenza energetica. Ben presto ho sostituito quei sì e quei no – che mi evocavano
una promozione piuttosto che una bocciatura – con il simbolo del sole, disegnato con un
pastello di un acceso color arancio. Al termine del mese facevo una sorta di bilancio:
rendendomi consapevole del tempo trascorso nel benessere e di quello, al contrario, che
avevo disperso; totalmente alla mercé di pensieri negativi, frustrazioni, rabbia e
ingigantimento di dettagli riferiti ad episodi di cui facevo persino fatica a ricordarmi. In
gergo tecnico, si tratta semplicemente di dirigere il focus. Divenire osservatori di se stessi.
Osservatori.. non giudici!
Il fare bene me è diventata la mia disciplina! Intesa non come obbligo; rigidità o ripetizione
pedissequa di abitudini. La disciplina di cui parlo somiglia molto alla filosofia dei samurai: è
entrare pienamente dentro ogni azione compiuta. È la totale dedizione ad ogni qui ed ora
che accade. È la massima applicazione, profusa non per aderire ad uno schema
predefinito o per raggiungere una perfezione formale, ma perché in ogni atto io risuono
con ciò che faccio. Può trattarsi di qualsiasi cosa: di una partita a tennis; di una
passeggiata nella natura; di un progetto che voglio realizzare; di un hobby che mi
appassiona o di un piatto che mi fa gusto cucinare. Il comune denominatore è il piacere,
nel senso lato del termine.
ll piacere sta nella scelta di fare proprio quella cosa; sta nel benessere che ne ricavo; e, più
di tutto, sta nel consapevolizzare che quell’azione non è qualcosa di esterno a me, bensì
io sta facendo me attraverso quella cosa.
Nella frenesia della quotidianità, tra il lavoro, la famiglia, i figli, i tanti impegni e le
incombenze da gestire, può succedere di sentirsi sopraffatti e di dimenticarsi di sé. Non
c’è da sentirsi in colpa o inadeguati. C’è da fermarsi un attimo e rimettersi centrali.
Allora
ecco che la disciplina del samurai può essere una grande alleata. Quando il tempo a
disposizione viene riempito con azioni che producono vantaggio per sé, sembra che il
tempo stesso si dilati, che si impreziosisca perché nulla va sprecato. Acquista in valore ed
efficacia. Farsi un regalo; dedicarsi alla cura del proprio corpo; vivere un incontro
intelligente; lasciare posto alle intuizioni; iniziare un nuovo percorso di studi. E’ possibile
vivere tante dimensioni, tutte diverse tra loro: passare dalla sensorialità alla pianificazione;
dalla creatività alla progettualità, sapendo che ogni giornata può essere talmente ricca da
avere l’impressione che si sia consumata un’intera esistenza.
Una volta scoperta questa capacità di auto-provvedersi, intesa come capacità – in ogni
momento – di ricavare piena soddisfazione dalle cose che si fanno, la conseguenza
naturale è vivere un piacere costante. E’ un erotismo della vita che, inevitabilmente,
innesca un circolo virtuoso di gratificazione.
Possono esserci delle fasi altalenanti: a me sono capitate spesso. Cosa ho fatto? Intanto
non ho mai mollato il mio esercizio sul calendario! Mi sono rimessa in ascolto di me stessa
e sono ripartita dall’attenzione posta in ogni singola azione.. un po’ come le molliche di
Pollicino per ritrovare la strada. Per rispondere, dunque, alla provocazione iniziale:
secondo questa prospettiva, si coglie un’identità tra piccole e grandi cose. Perché, in
verità, non esistono le piccole cose, ma solo le grandi cose.. se si tratta di quelle messe in
atto per giungere al meglio di sé. Come dicevano gli antichi greci katametron, secondo
misura, ognuno la propria. Al fine ultimo di realizzare l’eudaimonia, la felicità.
articolo scritto da:
Giusy Aragona aka Molly
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